Il restauro che ha svelato il vero volto della Cappella Paolina – diretto da Antonio e Arnold Nesselrath – ha dato occasione di rileggere unitariamente la serie di affreschi che la decorano e di ricostruire lo stratificato insieme dei programmi iconografici, frutto delle diverse strategie, matrici e finalità che nel succedersi dei pontificati li hanno determinati. E’ noto infatti che l’intenzione di decorare interamente la cappella era stata già espressa da Paolo III, tuttavia tale progetto ebbe stalli e ripensamenti fino a che Gregorio XIII non riaprì il cantiere, affidato prima a Vasari e Sabatini, e poi a Federico Zuccari.
Sebbene non si conosca il programma iconografico previsto da Paolo III, si deduce da Vasari e da altre fonti che Michelangelo iniziò a progettare altri dipinti che Perin del Vaga avrebbe dovuto realizzare. Ne restano rare tracce grafiche di Michelangelo e alcuni disegni di Perin del Vaga per due piviali di papa Farnese, le cui storie dei santi Pietro e Paolo sono state messe in relazione con i dipinti non eseguiti nella Paolina. In ogni caso, come indicò Heinrich Thelen, i temi dei due affreschi di Michelangelo furono concepiti in relazione con le funzioni liturgiche e cerimoniali della cappella – in particolare custodire il Santissimo Sacramento e ospitare i conclavi per l’elezione dei papi. I soggetti dei due affreschi principali si debbono dunque al committente, che il maestro di Caprese interpretò con vigorosa inventiva: una scelta che probabilmente risale al 1542, proprio quando Paolo III indiceva il Concilio per la riforma della Chiesa. Va inoltre rilevato che la Conversione di Saulo, eseguita tra il 1543 e il 1545, rappresenta una novità nelle iconografie di committenza pontificia Del resto, associare il tema della conversione al martirio di san Pietro o ad altro soggetto petriano, significava indicare una priorità non procrastinabile per il futuro del pontificato e dell’intero cattolicesimo.
Paolo III, rimpiazzando la tradizionale scena della decollazione, attribuì un valore particolare alla conversione dell’apostolo. E’ noto infatti che nel Sancta Sanctorum, decorato da Niccolò III, e nel Polittico Stefaneschi, eseguito da Giotto e bottega per l’altare maggiore di San Pietro, la Crocifissione di san Pietro era stata affiancata dalla Decollazione di san Paolo. Così pure, nel Quattrocento, sia Eugenio IV che Paolo II avevano mantenuto tale abbinamento nella porta bronzea del Filarete e nel ciborio di Paolo Romano in San Pietro.
In realtà papa Farnese volle fare della Conversione di san Paolo una sorta di manifesto del suo pontificato. Non solo aveva scelto il nome di Paolo, ma teneva a celebrarne solennemente il 25 gennaio la festa della Conversione nella basilica ostiense. Von Pastor peraltro ha notato che la dedicazione della Cappella Paolina avvenne proprio il 25 gennaio del 1540 e Frommel ha poi segnalato che il medesimo tema fu impresso in una medaglia di Paolo III coniata per la propria elezione, e ne dà conferma uno dei medaglioni della Sala Paolina di Castel Sant’Angelo, dipinto su disegno di Perin del Vaga assieme al martirio dell’apostolo. Va quindi rilevato che Farnese operò un cambiamento di rotta rispetto alla tradizione papale di rappresentare l’apostolo delle genti. E’ pur vero che la Conversione di san Paolo era stata inserita tra i soggetti degli arazzi di Raffaello per la Cappella Sistina, ma non aveva ottenuto la stessa rilevanza. Inoltre, la nuova caratterizzazione della scena creata da Michelangelo trovava nel potente gesto di Cristo e nel fulminante fascio di luce che atterra l’apostolo un’efficace metafora della grazia divina, destinata a influenzare le successive rappresentazioni. In tal modo Paolo III intendeva ‘riappropriarsi’ della figura di san Paolo, sui cui scritti Lutero aveva fondato il principio della sola fide e della sua opposizione teologica alla Chiesa romana.

D’altronde è nota la funzione ‘politica’ attribuita alle immagini, che in quel frangente assumeva una valore particolare nella disputa con i Riformati. Non sappiamo se Paolo III conoscesse le raffigurazioni della Conversione di san Paolo realizzate nei territori germanici, come le varie illustrazioni a stampa ispirate a un incisione di Hans Baldung Grien o i dipinti realizzati da Lucas Cranach il Giovane. Tuttavia si può supporre che in quel tormentato momento il papa volesse affidare al più grande artista di quel tempo anche il compito di soppiantare le figurazioni diffuse nelle zone passate alla Riforma.
Del resto questa scelta – come ha chiarito Stefania Nanni nel suo bel saggio sulla figura di Paolo e la centralità della conversione all’avvio dell’età tridentina – era perfettamente in linea con quanto era stato espresso da più parti. Basti ricordare il Consilium de emendanda Ecclesia, che esponeva con inedita schiettezza un decisivo programma di riforma in caput et in membris e apriva con inedita audacia l’offensiva del movimento riformista anche contro la roccaforte della Curia romana.

Pure il tema della Crocifissione di Pietro si collega alla volontà di Paolo III. Un elemento di conferma può derivare dal possibile cambiamento del soggetto, visto che Vasari, nella prima edizione delle Vite (1550), prevede l’esecuzione di una Consegna delle chiavi a san Pietro. Leo Steinberg, com’è noto ha proposto di individuare l’idea di Michelangelo per la Consegna delle chiavi in un disegno di Windsor attribuito al miniaturista di casa Farnese, Giulio Clovio, a cui è stata accostata una miniatura del Louvre, solitamente considerata di Clovio e di recente attribuita a Giovan Battista Castello.
Si è dubitato dell’attendibilità di Vasari, ma è difficile che egli abbia confuso il tema di un’opera così importante, tanto più che egli scriveva attorno al 1546-47, poco tempo dopo la conclusione della Conversione di san Paolo. Una ragione del cambiamento può derivare dal fatto che la Consegna delle chiavi era stata raffigurata dal Perugino nella Cappella Sistina e in un arazzo di Raffaello, ma è probabile che anche motivi di ordine teologico-politico spinsero Paolo III a mutare soggetto.
Evidentemente papa Farnese, eludendo il tema delle chiavi, volle evitare la consueta esaltazione del primato petrino, per porre l’accento sulla testimonianza di fede di Pietro fino al martirio. In un momento di grande travaglio per la Chiesa di Roma e di messa in discussione del papato, la Crocifissione di Pietro era più adatta a presentare l’apostolo quale modello e monito per i suoi successori. Fu una scelta tutt’altro che scontata, soprattutto se si considera che pochi anni dopo Paolo IV, «grande ideologo del papato in senso teocratico» (De Maio), avrebbe rilanciato la festa della Cattedra di san Pietro (1558) per riaffermare la storicità del primato pontificio.

D’altronde, anche la Crocifissione di san Pietro, dipinta da Michelangelo tra il 1546 e il 1549-50, poteva ribadire la venuta a Roma dell’apostolo, invece contestata dai protestanti. Nonostante il soggetto fosse consueto, la sua formulazione è del tutto originale. Pietro è disteso sul patibolo in condizioni di improbabile tenuta statica. Con quell’innaturale ed eroica postura, assunta per girarsi verso lo spettatore, l’apostolo sembra voler offrire se stesso in modo simile a Cristo. Ed è forse questo il messaggio che Paolo III volle rivolgere alla ristretta cerchia dei frequentatori della cappella, a partire dai suoi successori e dai cardinali elettori, fino ai vescovi e ai membri della Curia.

Nel corso del restauro, Maurizio De Luca ha appurato che la torsione drammatica di Pietro è accentuata dai pentimenti sulle spalle e sul collo del santo, e che in origine non c’erano né il perizoma né i chiodi. Quest’ultimo rilievo è confermato da una riproduzione a stampa di Michele Lucchese (1564 ca.), e da due copie grafiche attribuite a Lelio Orsi. Vediamo quella con la sola figura dell’apostolo, dove il corpo è nudo e non è inchiodato. Non è noto quando avvennero questi interventi correttivi, ma è possibile che almeno i chiodi siano stati aggiunti al tempo del rigoroso Pio V (1566-1572). Infatti, nell’incisione del Cavalieri, databile al 1567, il santo è ancora privo del perizoma, ma ha quattro chiodi nelle mani e nei piedi.
Del resto Andrea Gilio, nel 1564, tra i rimproveri mossi a Michelangelo includeva l’aver rappresentato «San Pietro crocifisso, senza chiodi, senza funi, ò altra cosa … che mostrasse l’atrocità del martirio». Forse la correzione non fu causata da questo appunto di Gilio, poiché le critiche agli affreschi della Paolina e al Giudizio della Sistina erano già state espresse sia dentro sia fuori della Curia romana. In ogni caso, l’aggiunta dei chiodi può aver trovato nuovo sostegno sotto Pio V: il trattato sulle immagini sacre del Molano, edito nel 1570, si diffonde con erudite citazioni classiche sulla necessità di raffigurare san Pietro inchiodato e non legato alla croce, e cita come modelli proprio le scene del ciborio di Paolo Romano e della porta bronzea del Filarete, dove la presenza dei chiodi è evidente.
Pure la Conversione di san Paolo ha subito qualche censura: lo dimostrava la riproduzione incisa dal Beatricetto verso il 1550 e lo ha confermato l’ultimo restauro. La più vistosa è il drappo (ora rimosso) sui due angeli apteri, posti alla sinistra del Cristo che “si tuffa” come per fulminare Saulo.
Nella Crocifissione di san Pietro, l’apostolo ha uno sguardo severo e «ci guarda irato – come ha notato Paolucci – quasi dubbioso della utilità del suo martirio». La sua espressione minacciosa fa eco a quella della figura del medesimo apostolo nel Giudizio Universale.
Questo atteggiamento, pur non trovando facile riscontro nell’iconografia petriana, ha un illustre precedente in un disegno di Leonardo per la testa di Pietro del Cenacolo di Santa Maria delle Grazie. Questa terribilità dell’apostolo di Michelangelo doveva corrispondere ai propositi che animavano Paolo III in quel momento e se ne trova traccia anche nelle bolle di indizione e di proroga del Concilio tridentino del maggio 1542 e del luglio 1543: «A nessun uomo in nessun modo sia lecito infrangere questa pagina della nostra dichiarazione ... Se qualcuno presumesse di tentare ciò, sappia che incorrerà nell’indignazione di Dio Onnipotente e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo».
Qualcosa di analogo sembra evocato nell’affresco della Paolina: quasi una comminatio per immagine, più efficace di un testo scritto.
Intimidazione che riguarda anche la conversione degli infedeli e degli ebrei, cui forse allude il maestro di Caprese nelle due figure in atteggiamento dubbioso sulla destra. Massimo Moretti ha infatti notato che l’anziano con abito giallo e cappuccio frigio, è tipico delle raffigurazioni cinquecentesche degli ebrei. Del resto va tenuto presente che Paolo III in quegli anni istituì l’Inquisizione Romana, il 21 luglio 1542, ed eresse la casa dei catecumeni per educare alla dottrina cattolica gli ebrei battezzati o prossimi al battesimo (19 febbraio 1543), nel momento in cui Michelangelo si avviava a porre mano alla Conversione di san Paolo.
Per la decorazione della Paolina – lo si è ricordato – Michelangelo doveva progettare altre scene, per le quali conosciamo un disegno del British Museum con Cristo che scaccia i mercanti dal Tempio. Charles de Tolnay ha giustamente ipotizzato che fosse destinato alla lunetta della parete d’ingresso della Paolina, anche in base a un documento che nel 1549 attesta l’impegno nella cappella di Marcello Venusti, artista molto vicino al Buonarroti. In una tavola di Venusti con la Cacciata dei mercanti dal Tempio (Londra, National Gallery) sono state rintracciate la derivazione da Michelangelo e una conferma dell’incarico del papa a proseguire l’opera del maestro. Il medesimo tema è illustrato in una medaglia di Paolo III, segnalata da Frommel, che Filippo Bonanni già nel Seicento aveva collegato alle istanze riformiste di Paolo III e del Concilio di Trento.

Anche in questo caso, probabilmente, papa Farnese intendeva riappropriarsi di un argomento che i Riformati avevano impugnato contro la simonia e la corruzione della Chiesa di Roma. Un esempio sferzante era dato dal contrapporre l’immagine di Cristo che scaccia i mercanti dal tempio a quella del papa (l’Anticristo) che vende le indulgenze, le cariche e le dispense, come nell’Antithesis figurata vitae Christi et Antichristi pubblicata da Lutero nel 1521 e corredata da ventisei xilografie di Lukas Cranach il Vecchio. Tuttavia, Paolo III morì quando Venusti aveva appena iniziato il lavoro: il dipinto non fu mai eseguito e quel soggetto non fece più ingresso nella Paolina. Il disinteresse di Giulio III (1550-1555) bloccò ogni cosa e si dovette attendere l’avvento di Gregorio XIII (1572-1585) perché i lavori riprendessero.

Nel 1573, papa Boncompagni decise di completare la decorazione della Paolina affidandone la direzione a Giorgio Vasari e l’esecuzione degli affreschi al bolognese Lorenzo Sabbatini, che già lavorava nei palazzi vaticani. Com’è noto, l’artista aretino realizzò un disegno in base a un programma iconografico redatto da Vincenzo Borghini, e di nuovo definito a partire dalle principali funzioni della cappella. I temi indicati riguardavano la vita e miracoli di Pietro e Paolo, con un accentuato rimando al primato petrino (vi era prevista anche «la storia della Cattedra di S. Pietro in Roma»), ed erano correlati a storie di Mosè ed Elia, protagonisti della Trasfigurazione di Cristo che avrebbe dovuto occupare il centro della volta. Ma il papa, pur avendolo apprezzato il progetto grafico, non lo ritenne adatto alla Paolina. Probabilmente non furono ragioni estetiche a determinarne il rifiuto, ma questioni di contenuto che si possono soltanto intuire.
Confrontandone i soggetti con quelli poi dipinti da Federico Zuccari, si può supporre che furono considerati inadatti i complessi parallelismi tra le storie degli apostoli e quelle di Mosè ed Elia, che infatti scomparvero nella redazione definitiva. Non è noto il disegno rifiutato dal papa, ma Barocchi e Cecchi ne hanno riconosciuti altri due di Vasari per la volta della cappella. Nel progetto di Berlino, con otto delle storie indicate da Borghini, Florian Härb ha notato che gli undici schizzi sono ritagliati e ricomposti con alcuni errori nella sequenza. Invece, un foglio degli Uffizi, con al centro la Trasfigurazione, è forse una prima idea o un disegno alternativo a quello rifiutato.

Vasari disegnò anche le scene riguardanti le pareti: lo mostrano due fogli autografi che corrispondono al programma di Borghini: la Consegna delle chiavi, poi sostituita dal Battesimo del centurione Cornelio di Federico Zuccari, e San Paolo si difende davanti a Festo e Agrippa, poi rimpiazzato dal Battesimo di san Paolo di Lorenzo Sabatini. E’ interessante notare che la Consegna delle chiavi venne riproposta e di nuovo esclusa, così come avvenne pochi anni dopo con un progetto di Federico Zuccari per la parete d’altare.
Sulla base di nuove indicazioni, Sabatini eseguì solo tre affreschi: i due ai lati della Conversione di san Paolo rappresentano la Lapidazione di santo Stefano e il Battesimo di san Paolo, tratti dagli Atti degli Apostoli, mentre il terzo, sulla destra della Crocifissione di san Pietro, è la Caduta di Simon mago. La morte di Sabatini, nel 1576, lasciò incompiuta l’opera e il quarto dipinto fu eseguito dopo il 1580 da Federico Zuccari, con il Battesimo del centurione Cornelio.
E’ stato osservato che la Caduta di Simon mago è l’unico soggetto apocrifo ammesso da Gregorio XIII nella Paolina; tema che godeva di una rinnovata fortuna perché in Simone, come ribadì Baronio, si identificava «il capostipite di tutti gli eretici» e nell’atto di Pietro si riconosceva il potere affidato all’apostolo e ai successori di «conoscere le eresie e condannarle con le loro autorità». L’inserimento di un tema così marcatamente apologetico è rivelatore di un clima rassicurato, per una riconquistata posizione di forza da parte del pontificato romano. Tale vis polemica peraltro non stupisce se si considera che in quegli stessi anni Gregorio XIII fece rappresentare a Vasari nella Sala Regia le ‘vittorie’ ottenute da parte cattolica, non solo contro i Turchi a Lepanto, ma anche sui protestanti con l’eccidio degli Ugonotti nella notte di san Bartolomeo.
La Caduta di Simon mago si inserisce in una serie di parallelismi e di antitesi, formate sulle pareti da due scene di battesimo (di Paolo e Cornelio), due martìri (di Pietro e Stefano) e due ‘cadute’ (di Paolo e Simon mago) la cui alternanza tematica include gli affreschi di Michelangelo. Le prime due coppie richiamano la centralità dei sacramenti e il nodale tema del martirio, mentre l’ultima ha un valore antinomico e contrappone la caduta dell’eretico alla ‘caduta’ del persecutore che si converte e diviene apostolo
La scelta di un soggetto apocrifo poteva trovare giustificazione anche dal richiamo di antiche iconografie, ormai invalso al tempo di Gregorio XIII. La Caduta di Simon mago, infatti era ancora visibile nell’antica San Pietro, nel ciclo affiancato ai mosaici dell’oratorio di Giovanni VII e nel ciborio di Paolo Romano, e poteva suonare come risposta alla propaganda antipapista di parte protestante.

Nel 1580 Gregorio XIII accettò la candidatura di Federico Zuccari, sostenuta dal granduca di Toscana. L’incarico prevedeva anche la decorazione a stucco. Per questa furono coinvolti Prospero Bresciano, Bartolomeo Carducci, Giovan Andrea Svolgi e altri esperti artigiani – come indicano i pagamenti riesaminati nel volume da Anna Maria De Strobel e Alessandra Rodolfo. Federico si era messo all’opera, ma nell’autunno del 1581 dovette abbandonare la città per lo ‘scandalo’ della Porta Virtutis, dipinto fatto in polemica con lo ‘scalco’ di Gregorio XIII. Esiliato da Roma, dovette attendere il perdono del papa, che giunse nella primavera del 1583. Gli affreschi probabilmente furono terminati nel 1584 o all’inizio dell’anno seguente.

Federico era stato incaricato di progettare la parete dell’altare, alla quale è dedicato un noto disegno dell’Albertina che comprende le partiture architettoniche, una serie di statue e ornamenti in stucco, la pala d’altare con la Pentecoste e la ricordata lunetta con la Consegna delle chiavi. Un progetto, studiato in ogni dettaglio, che Cristina Acidini considera non realizzato.
Nella sua ultima versione il programma iconografico della volta pone in parallelo cinque storie di san Pietro e cinque di san Paolo, tutte ricavate dagli Atti degli Apostoli: lo evidenziano nei cartigli le relative citazioni ora recuperate dal restauro. L’assenza di episodi apocrifi mette in luce la volontà di scegliere la Sacra Scrittura quale unica fonte e fa pensare a un programma ispirato da un esperto biblista. Il nome di Guglielmo Sirleto, proposto da Acidini, sembra plausibile per le vasta cultura e gli importanti incarichi che il cardinale era andato ricoprendo. Chiunque svolse tale incarico suggerì al pittore una selezione di episodi della vita dei due apostoli, destinati a illustrare il potere di operare miracoli e guarigioni.
Da vari indizi risulta che il piano iconografico predisposto da Borghini per Vasari sia stato utilizzato come canovaccio su cui impostare il programma definitivo. Lo mostra anche il fatto che sette delle dieci storie dipinte da Zuccari nella volta e nella lunetta d’ingresso coincidono con gli episodi a vario titolo suggeriti dal letterato fiorentino

Posso concludere osservando l’affresco centrale, con l’apostolo in contemplazione di un geometrico empireo di tipo “dantesco”. In basso, un vaso dorato reca un cartiglio la cui scritta, “electionis”, va letta, come in un rebus: [vas] electionis.
Federico Zuccari, acuto lettore e illustratore della Divina Commedia, con questa citazione dagli Atti degli Apostoli (9,15) sembra esprimere un omaggio a Dante, che nel secondo canto dell’Inferno utilizza “Vas electionis” come appellativo di san Palo proprio per indicarne il rapimento al terzo cielo. Se Michelangelo aveva concluso il Giudizio della Cappella Sistina con gli inquietanti richiami all’Inferno dantesco, Federico Zuccari volle proporre nella Paolina un intellettualistico e rasserenante rimando al Paradiso. Il tempo di Paolo III, con i suoi propositi, era ormai lontano e anche la lettura figurativa del Padre Dante aveva cambiato di segno.
di Alessandro ZUCCARI

 

Fonte: www.news-art.it

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